Le sue origini, sotto il titolo di S. Maria Maggiore, sono forse anteriori al X secolo, ma l’attuale costruzione, dedicata all’Assunta e che accoglie sotto la mensa dell’altare maggiore le ossa del vescovo-comprotettore
S. Fortunato, risale al 1140. E’ infatti posteriore all’incendio che nel 1124 distrusse la vecchia cattedrale: chiesa che avrebbe a sua volta sostituito la prima minuscola protocattedrale di S. Pietro in Episcopio.
Artefice ‘docta manu’ della ricostruzione fu quel Magister Rainerus di cui fa cenno l’antica epigrafe conservata all’interno della chiesa.
Fino al 1928 la chiesa ebbe il prospetto completamente manomesso e grossolanamente intonacato, ma il fanese ing. Cesare Selvelli, variando in parte un primo progetto dell’arch. Edoardo Collamarini, gli ha restituito, dopo un accurato restauro, dignità d’arte.
Oggi, pertanto, l’edificio si presenta con una facciata tipicamente romanica a strutture miste di laterizi e pietra arenaria, rustica e arcaica nella sua semplicità. Semplice e bello è soprattutto il portale con evidenti influssi cosmateschi nelle decorazioni a tarsie marmoree che ravvivano i pilastrini e gli archi della strombatura, alternati alle lisce colonnette in marmo bianco e rosa: il tutto contrapposto alle immagini in forte rilievo dell’agnello divino scolpito al centro dell’architrave.
La cornice scolpita del grande occhio superiore denuncia purtroppo il vuoto dell’antico rosone scomparso; come pure scomparsi sono gli originali bacini in ceramica sopra gli archetti ciechi dello pseudologgiato laterale.
L’interno (a tre navate con basse volte a crociera e massicci pilastri un tempo polilobati) è purtroppo ricoperto da un amorfo intonaco giallino che nasconde gli originari paramenti a mattone, fatta eccezione per alcune arcate rimesse a nudo durante il generale restauro del 1940-41.
La struttura generale della chiesa resta comunque quella originaria, eccezione fatta per il presbiterio dove le tre cappelle attuali hanno sostituito altrettante absidi e dove è scomparsa l’antica cripta di cui restano tracce sulla parete a destra del transetto. Anche le cappelle laterali sono state aggiunte in tempi successivi.
L’imponente pulpito è opera frammentaria così composta nel 1941 mettendo insieme sculture varie appartenute all’antica chiesa come i quattro arcaici leoni stilofori, le cornici zoomorfe a fascia e gli stupendi altorilievi della balaustra (Adorazione e Sogno dei Magi, Annunciazione e Visitazione, Fuga in Egitto e Sogno di
S. Giuseppe, oltre ai Pastori adoranti utilizzati per la cattedra vescovile), provenienti forse tutti dall’antica tribuna scomparsa e non lontano, per modello e stile, dalle opere dei maggiori maestri romanici dell’area lombardo-emiliana.
Sul retro di due lastre un’iscrizione e un bellissimo bucranio con festone e patera documentano la provenienza delle stesse da un’antica ara votiva dedicata agli Dei Mani.
Molto probabile, d’altronde, è che in epoca romana sorgessero sull’area della Cattedrale e del retrostante Episcopio uno o più edifici sacri pagani da cui non possono non provenire i vari frammenti statuari e scultorei rinvenuti (e in massima parte asportati) in tempi diversi.
E’ rimasto in loco, dopo essere stato riutilizzato per scolpirvi sul retro una maestosa figura regale assisa in trono, un frammento di fregio che presenta i volti umanizzati di due misteriose maschere gemelle. Altra interessante opera scultorea è il frammento del cosiddetto sarcofago del citarista, riutilizzato per la moderna tomba del vescovo Vincenzo Del Signore (seconda cappella sulla destra), che pare raffigurare il noto episodio di Re David danzante.
La terza cappella, sempre sulla destra, è la fastosa Cappella Nolfi, così denominata dai patrizi fanesi Guido e Cesare Nolfi che dopo il 1604 la fecero interamente trasformare con la collaborazione di artisti vari, compreso l’architetto Girolamo Rainaldi, che diede il disegno per la ricca decorazione plastica della volta e delle pareti laterali (realizzate dallo stuccatore Pietro Solari) nei cui riquadri Domenico Zampieri (il Domenichino) affrescò tra il 1618 e il 1619 i sedici bellissimi episodi della Vita della Vergine.
Dell’anconetano Andrea Lilli è invece la grande tela raffigurante Il Paradiso e l’Assunta (intorno al 1606) posta sulla parete dell’altare, mentre dello scultore Francesco Caporale sono i busti dei due Nolfi collocati (dopo il 1612) sui rispettivi monumenti funebri. Altra importante opera pittorica è la bella tela con la Vergine in Gloria e i Santi vescovi comprotettori Orso ed Eusebio di Ludovico Carracci (1613), posta sull’altare della cappella a destra del presbiterio e affiancata dalle immagini di S. Antonio Abate e S. Francesco del fanese Bartolomeo Giangolini che del Carracci fu allievo.
Dal lato opposto è la settecentesca cappella del SS. Sacramento che ha sull’altare un Gesù con il SS. Sacramento del fanese Giuseppe Luzzi (sec. XVIII) e sulle pareti laterali due belle tele raffiguranti la Caduta della manna e l’Ultima cena, opera entrambe di scuola bolognese, ma non immuni da influssi barocceschi (sec. XVII). Di un ignoto manierista forse locale è invece la Caduta di S. Paolo da cavallo sull’altare della prima cappella a destra.
La grande Assunta che occupa la parete di fondo del coro è infine opera di Sebastiano Ceccarini e sostituisce l’antica ancona (forse un polittico) donata alla chiesa da Pandolfo III Malatesti nel 1427 e forse andata distrutta nell’incendio che nel 1749 ebbe a devastare il presbiterio.
Dono di Pandolfo III era stato anche il primo organo a tre ali, realizzato dal famoso Paolo d’Adria che determinò nel tempo la nascita e lo sviluppo di quella Cappella Musicale, rimasta in vita fino ai primi decenni del nostro secolo, che ebbe fra i suoi Maestri più o meno noti il celebre Ludovico Grossi da Viadana (biennio 1610-12), il fanese Francesco Ferrari, Antonio Gaetano Pampini, Paolo Benedetto Bellinzani, Carlo Sodi, Francesco Vici, Vincenzo Rastrelli pure fanese, Giuseppe Ripini e diversi altri ancora.
Usciti dalla chiesa e tornati in via Arco d’Augusto, si osservi sulla destra il caratteristico sperone angolare dell’antica Casa degli Arnolfi, interessantissima costruzione che sopra un loggiato in pietra di epoca medioevale (oggi chiuso) ha due piani di finestre rinascimentali dalla palese impronta lauranesca e un finissimo cornicione in cotto lavorato coevo.
Poco più avanti è l’incrocio con il corso Matteotti, l’antico umbilicus della città romana, il punto dove il decumanus maximus incontrava quello che era (anche se non tutti si dichiarano concordi) il cardo maximus.
Qui, scavi effettuati sull’area dell’adiacente giardino di Piazza Amiani, ricavato alla fine del secolo scorso al posto del demolito monastero dei SS. Filippo e Giacomo, hanno fornito abbondante materiale archeologico e messo in luce i resti di un quadriportico (basi e capitelli in pietra e poche tracce dei fusti in laterizio) in cui si è pensato di poter identificare i resti dell’antico Forum della città romana. Altri invece hanno ipotizzato trattarsi dell’area porticata di una Palaestra (il tutto è visibile nei sotterranei delle ex Scuole Elementari ‘L. Rossi’ che occupano parte del lato orientale dei suddetti giardini).
Proseguendo ancora per via Arco d’Augusto, si fiancheggia a destra l’antico Palazzo Amiani (oggi Borgogelli-Avveduti) dall’interessante portale in pietra con sovrastanti simboli araldici (gigli e drago alato): edificio che a partire dal 1641 ospitò la sede della Accademia degli Scomposti, fondata dal nobile Gregorio Amiani nel 1641 e che fu la maggiore e la più nota della città nel corso dei secoli XVII e XVIII. Sulla sinistra si apre il piccolo sagrato antistante la vasta mole della chiesa di S. Domenico.
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