Inferno Canto V
(Il Poeta narra la storia di Paolo e Francesca)
Così discesi del cerchio primaio
giù nel secondo, che men loco cinghia
3 e tanto più dolor, che punge a guaio.
Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia:
essamina le colpe ne l’intrata;
6 giudica e manda secondo ch’avvinghia.
Dico che quando l’anima mal nata
li vien dinanzi, tutta si confessa;
9 e quel conoscitor de le peccata
vede qual loco d’inferno è da essa;
cignesi con la coda tante volte
12 quantunque gradi vuol che giù sia messa.
Sempre dinanzi a lui ne stanno molte:
vanno a vicenda ciascuna al giudizio,
15 dicono e odono e poi son giù volte.
“O tu che vieni al doloroso ospizio”,
disse Minòs a me quando mi vide,
18 lasciando l’atto di cotanto offizio,
“guarda com’entri e di cui tu ti fide;
non t’inganni l’ampiezza de l’intrare!”.
21 E ’l duca mio a lui: “Perché pur gride?
Non impedir lo suo fatale andare:
vuolsi così colà dove si puote
24 ciò che si vuole, e più non dimandare”.
Or incomincian le dolenti note
a farmisi sentire; or son venuto
27 là dove molto pianto mi percuote.
Io venni in loco d’ogne luce muto,
che mugghia come fa mar per tempesta,
30 se da contrari venti è combattuto.
La bufera infernal, che mai non resta,
mena li spirti con la sua rapina;
33 voltando e percotendo li molesta.
Quando giungon davanti a la ruina,
quivi le strida, il compianto, il lamento;
36 bestemmian quivi la virtù divina.
Intesi ch’a così fatto tormento
enno dannati i peccator carnali,
39 che la ragion sommettono al talento.
E come li stornei ne portan l’ali
nel freddo tempo, a schiera larga e piena,
42 così quel fiato li spiriti mali
di qua, di là, di giù, di sù li mena;
nulla speranza li conforta mai,
45 non che di posa, ma di minor pena.
E come i gru van cantando lor lai,
faccendo in aere di sé lunga riga,
48 così vid’io venir, traendo guai,
ombre portate da la detta briga;
per ch’i’ dissi: “Maestro, chi son quelle
51 genti che l’aura nera sì gastiga?”.
“La prima di color di cui novelle
tu vuo’ saper”, mi disse quelli allotta,
54 “fu imperadrice di molte favelle.
A vizio di lussuria fu sì rotta,
che libito fé licito in sua legge,
57 per tòrre il biasmo in che era condotta.
Ell’è Semiramìs, di cui si legge
che succedette a Nino e fu sua sposa:
60 tenne la terra che ’l Soldan corregge.
L’altra è colei che s’ancise amorosa,
e ruppe fede al cener di Sicheo;
63 poi è Cleopatràs lussurïosa.
Elena vedi, per cui tanto reo
tempo si volse, e vedi ’l grande Achille,
66 che con amore al fine combatteo.
Vedi Parìs, Tristano”; e più di mille
ombre mostrommi e nominommi a dito,
69 ch’amor di nostra vita dipartille.
Poscia ch’io ebbi il mio dottore udito
nomar le donne antiche e ’ cavalieri,
72 pietà mi giunse, e fui quasi smarrito.
I’ cominciai: “Poeta, volontieri
parlerei a quei due che ’nsieme vanno,
75 e paion sì al vento esser leggeri”.
Ed elli a me: “Vedrai quando saranno
più presso a noi; e tu allor li priega
78 per quello amor che i mena, ed ei verranno”.
Sì tosto come il vento a noi li piega,
mossi la voce: “O anime affannate,
81 venite a noi parlar, s’altri nol niega!”.
Quali colombe dal disio chiamate
con l’ali alzate e ferme al dolce nido
84 vegnon per l’aere dal voler portate;
cotali uscir de la schiera ov’è Dido,
a noi venendo per l’aere maligno,
87 sì forte fu l’affettüoso grido.
“O animal grazïoso e benigno
che visitando vai per l’aere perso
90 noi che tignemmo il mondo di sanguigno,
se fosse amico il re de l’universo,
noi pregheremmo lui de la tua pace,
93 poi c’hai pietà del nostro mal perverso.
Di quel che udire e che parlar vi piace,
noi udiremo e parleremo a voi,
96 mentre che ’l vento, come fa, ci tace.
Siede la terra dove nata fui
su la marina dove ’l Po discende
99 per aver pace co’ seguaci sui.
Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende,
prese costui de la bella persona
102 che mi fu tolta; e ’l modo ancor m’offende.
Amor, ch’a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
105 che, come vedi, ancor non m’abbandona.
Amor condusse noi ad una morte.
Caina attende chi a vita ci spense”.
108 Queste parole da lor ci fuor porte.
Quand’io intesi quell’anime offense,
china’ il viso e tanto il tenni basso,
111 fin che ’l poeta mi disse: “Che pense?”.
Quando rispuosi, cominciai: “Oh lasso,
quanti dolci pensier, quanto disio
114 menò costoro al doloroso passo!”.
Poi mi rivolsi a loro e parla’ io,
e cominciai: “Francesca, i tuoi martìri
117 a lagrimar mi fanno tristo e pio.
Ma dimmi: al tempo d’i dolci sospiri,
a che e come concedette amore
120 che conosceste i dubbiosi disiri?”.
E quella a me: “Nessun maggior dolore
che ricordarsi del tempo felice
123 ne la miseria; e ciò sa ’l tuo dottore.
Ma s’a conoscer la prima radice
del nostro amor tu hai cotanto affetto,
126 dirò come colui che piange e dice.
Noi leggiavamo un giorno per diletto
di Lancialotto come amor lo strinse;
129 soli eravamo e sanza alcun sospetto.
Per più fïate li occhi ci sospinse
quella lettura, e scolorocci il viso;
132 ma solo un punto fu quel che ci vinse.
Quando leggemmo il disïato riso
esser basciato da cotanto amante,
135 questi, che mai da me non fia diviso,
la bocca mi basciò tutto tremante.
Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse:
138 quel giorno più non vi leggemmo avante”.
Mentre che l’uno spirto questo disse,
l’altro piangëa; sì che di pietade
141 io venni men così com’io morisse.
E caddi come corpo morto cade.
Inferno Canto XXVII
(Il Poeta parla di Urbino e di Guido da Montefeltro)
Già era dritta in sù la fiamma e queta
per non dir più, e già da noi sen gia
3 con la licenza del dolce poeta,
quand’un’altra, che dietro a lei venìa,
ne fece volger li occhi a la sua cima
6 per un confuso suon che fuor n’uscia.
Come ’l bue cicilian che mugghiò prima
col pianto di colui, e ciò fu dritto,
9 che l’avea temperato con sua lima,
mugghiava con la voce de l’afflitto,
sì che, con tutto che fosse di rame,
12 pur el pareva dal dolor trafitto;
così, per non aver via né forame
dal principio nel foco, in suo linguaggio
15 si convertïan le parole grame.
Ma poscia ch’ebber colto lor vïaggio
su per la punta, dandole quel guizzo
18 che dato avea la lingua in lor passaggio,
udimmo dire: “O tu a cu’ io drizzo
la voce e che parlavi mo lombardo,
21 dicendo “Istra ten va, più non t’adizzo”,
perch’io sia giunto forse alquanto tardo,
non t’incresca restare a parlar meco;
24 vedi che non incresce a me, e ardo!
Se tu pur mo in questo mondo cieco
caduto se’ di quella dolce terra
27 latina ond’io mia colpa tutta reco,
dimmi se Romagnuoli han pace o guerra;
ch’io fui d’i monti là intra Orbino
30 e ’l giogo di che Tever si diserra”.
Io era in giuso ancora attento e chino,
quando il mio duca mi tentò di costa,
33 dicendo: “Parla tu; questi è latino”.
E io, ch’avea già pronta la risposta,
sanza indugio a parlare incominciai:
36 “O anima che se’ là giù nascosta,
Romagna tua non è, e non fu mai,
sanza guerra ne’ cuor de’ suoi tiranni;
39 ma ’n palese nessuna or vi lasciai.
Ravenna sta come stata è molt’anni:
l’aguglia da Polenta la si cova,
42 sì che Cervia ricuopre co’ suoi vanni.
La terra che fé già la lunga prova
e di Franceschi sanguinoso mucchio,
45 sotto le branche verdi si ritrova.
E ’l mastin vecchio e ’l nuovo da Verrucchio,
che fecer di Montagna il mal governo,
48 là dove soglion fan d’i denti succhio.
Le città di Lamone e di Santerno
conduce il lïoncel dal nido bianco,
51 che muta parte da la state al verno.
E quella cu’ il Savio bagna il fianco,
così com’ella sie’ tra ’l piano e ’l monte
54 tra tirannia si vive e stato franco.
Ora chi se’, ti priego che ne conte;
non esser duro più ch’altri sia stato,
57 se ’l nome tuo nel mondo tegna fronte”.
Poscia che ’l foco alquanto ebbe rugghiato
al modo suo, l’aguta punta mosse
60 di qua, di là, e poi diè cotal fiato:
“S’i’ credesse che mia risposta fosse
a persona che mai tornasse al mondo,
63 questa fiamma staria sanza più scosse;
ma però che già mai di questo fondo
non tornò vivo alcun, s’i’ odo il vero,
66 sanza tema d’infamia ti rispondo.
Io fui uom d’arme, e poi fui cordigliero,
credendomi, sì cinto, fare ammenda;
69 e certo il creder mio venìa intero,
se non fosse il gran prete, a cui mal prenda!,
che mi rimise ne le prime colpe;
72 e come e quare, voglio che m’intenda.
Mentre ch’io forma fui d’ossa e di polpe
che la madre mi diè, l’opere mie
75 non furon leonine, ma di volpe.
Li accorgimenti e le coperte vie
io seppi tutte, e sì menai lor arte,
78 ch’al fine de la terra il suono uscie.
Quando mi vidi giunto in quella parte
di mia etade ove ciascun dovrebbe
81 calar le vele e raccoglier le sarte,
ciò che pria mi piacëa, allor m’increbbe,
e pentuto e confesso mi rendei;
84 ahi miser lasso! e giovato sarebbe.
Lo principe d’i novi Farisei,
avendo guerra presso a Laterano,
87 e non con Saracin né con Giudei,
ché ciascun suo nimico era cristiano,
e nessun era stato a vincer Acri
90 né mercatante in terra di Soldano,
né sommo officio né ordini sacri
guardò in sé, né in me quel capestro
93 che solea fare i suoi cinti più macri.
Ma come Costantin chiese Silvestro
d’entro Siratti a guerir de la lebbre,
96 così mi chiese questi per maestro
a guerir de la sua superba febbre;
domandommi consiglio, e io tacetti
99 perché le sue parole parver ebbre.
E’ poi ridisse: “Tuo cuor non sospetti;
finor t’assolvo, e tu m’insegna fare
102 sì come Penestrino in terra getti.
Lo ciel poss’io serrare e diserrare,
come tu sai; però son due le chiavi
105 che ’l mio antecessor non ebbe care”.
Allor mi pinser li argomenti gravi
là ’ve ’l tacer mi fu avviso ’l peggio,
108 e dissi: “Padre, da che tu mi lavi
di quel peccato ov’io mo cader deggio,
lunga promessa con l’attender corto
111 ti farà trïunfar ne l’alto seggio”.
Francesco venne poi, com’io fu’ morto,
per me; ma un d’i neri cherubini
114 li disse: “Non portar: non mi far torto.
Venir se ne dee giù tra ’ miei meschini
perché diede ’l consiglio frodolente,
117 dal quale in qua stato li sono a’ crini;
ch’assolver non si può chi non si pente,
né pentere e volere insieme puossi
120 per la contradizion che nol consente”.
Oh me dolente! come mi riscossi
quando mi prese dicendomi: “Forse
123 tu non pensavi ch’io löico fossi!”.
A Minòs mi portò; e quelli attorse
otto volte la coda al dosso duro;
126 e poi che per gran rabbia la si morse,
disse: “Questi è d’i rei del foco furo”;
per ch’io là dove vedi son perduto,
129 e sì vestito, andando, mi rancuro”.
Quand’elli ebbe ’l suo dir così compiuto,
la fiamma dolorando si partio,
132 torcendo e dibattendo ’l corno aguto.
Noi passamm’oltre, e io e ’l duca mio,
su per lo scoglio infino in su l’altr’arco
135 che cuopre ’l fosso in che si paga il fio
a quei che scommettendo acquistan carco.
Inferno Canto XXVIII
(Il Poeta parla di Fano)
Chi poria mai pur con parole sciolte
dicer del sangue e de le piaghe a pieno
3 ch’i’ ora vidi, per narrar più volte?
Ogne lingua per certo verria meno
per lo nostro sermone e per la mente
6 c’hanno a tanto comprender poco seno.
S’el s’aunasse ancor tutta la gente
che già, in su la fortunata terra
9 di Puglia, fu del suo sangue dolente
per li Troiani e per la lunga guerra
che de l’anella fé sì alte spoglie,
12 come Livio scrïve, che non erra,
con quella che sentio di colpi doglie
per contastare a Ruberto Guiscardo;
15 e l’altra il cui ossame ancor s’accoglie
a Ceperan, là dove fu bugiardo
ciascun Pugliese, e là da Tagliacozzo,
18 dove sanz’arme vinse il vecchio Alardo;
e qual forato suo membro e qual mozzo
mostrasse, d’aequar sarebbe nulla
21 il modo de la nona bolgia sozzo.
Già veggia, per mezzul perdere o lulla,
com’io vidi un, così non si pertugia,
24 rotto dal mento infin dove si trulla.
Tra le gambe pendevan le minugia;
la corata pareva e ’l tristo sacco
27 che merda fa di quel che si trangugia.
Mentre che tutto in lui veder m’attacco,
guardommi e con le man s’aperse il petto,
30 dicendo: “Or vedi com’io mi dilacco!
vedi come storpiato è Mäometto!
Dinanzi a me sen va piangendo Alì,
33 fesso nel volto dal mento al ciuffetto.
E tutti li altri che tu vedi qui,
seminator di scandalo e di scisma
36 fuor vivi, e però son fessi così.
Un diavolo è qua dietro che n’accisma
sì crudelmente, al taglio de la spada
39 rimettendo ciascun di questa risma,
quand’avem volta la dolente strada;
però che le ferite son richiuse
42 prima ch’altri dinanzi li rivada.
Ma tu chi se’ che ’n su lo scoglio muse,
forse per indugiar d’ire a la pena
45 ch’è giudicata in su le tue accuse?”.
“Né morte ’l giunse ancor, né colpa ’l mena”,
rispuose ’l mio maestro, “a tormentarlo;
48 ma per dar lui esperïenza piena,
a me, che morto son, convien menarlo
per lo ’nferno qua giù di giro in giro;
51 e quest’è ver così com’io ti parlo”.
Più fuor di cento che, quando l’udiro,
s’arrestaron nel fosso a riguardarmi
54 per maraviglia, oblïando il martiro.
“Or dì a fra Dolcin dunque che s’armi,
tu che forse vedra’ il sole in breve,
57 s’ello non vuol qui tosto seguitarmi,
sì di vivanda, che stretta di neve
non rechi la vittoria al Noarese,
60 ch’altrimenti acquistar non saria leve”.
Poi che l’un piè per girsene sospese,
Mäometto mi disse esta parola;
63 indi a partirsi in terra lo distese.
Un altro, che forata avea la gola
e tronco ’l naso infin sotto le ciglia,
66 e non avea mai ch’una orecchia sola,
ristato a riguardar per maraviglia
con li altri, innanzi a li altri aprì la canna,
69 ch’era di fuor d’ogni parte vermiglia,
e disse: “O tu cui colpa non condanna
e cu’ io vidi su in terra latina,
72 se troppa simiglianza non m’inganna,
rimembriti di Pier da Medicina,
se mai torni a veder lo dolce piano
75 che da Vercelli a Marcabò dichina.
E fa saper a’ due miglior da Fano,
a messer Guido e anco ad Angiolello,
78 che, se l’antiveder qui non è vano,
gittati saran fuor di lor vasello
e mazzerati presso a la Cattolica
81 per tradimento d’un tiranno fello.
Tra l’isola di Cipri e di Maiolica
non vide mai sì gran fallo Nettuno,
84 non da pirate, non da gente argolica.
Quel traditor che vede pur con l’uno,
e tien la terra che tale qui meco
87 vorrebbe di vedere esser digiuno,
farà venirli a parlamento seco;
poi farà sì, ch’al vento di Focara
90 non sarà lor mestier voto né preco”.
E io a lui: “Dimostrami e dichiara,
se vuo’ ch’i’ porti sù di te novella,
93 chi è colui da la veduta amara”.
Allor puose la mano a la mascella
d’un suo compagno e la bocca li aperse,
96 gridando: “Questi è desso, e non favella.
Questi, scacciato, il dubitar sommerse
in Cesare, affermando che ’l fornito
99 sempre con danno l’attender sofferse”.
Oh quanto mi pareva sbigottito
con la lingua tagliata ne la strozza
102 Curïo, ch’a dir fu così ardito!
E un ch’avea l’una e l’altra man mozza,
levando i moncherin per l’aura fosca,
105 sì che ’l sangue facea la faccia sozza,
gridò: “Ricordera’ti anche del Mosca,
che disse, lasso!, “Capo ha cosa fatta”,
108 che fu mal seme per la gente tosca”.
E io li aggiunsi: “E morte di tua schiatta”;
per ch’elli, accumulando duol con duolo,
111 sen gio come persona trista e matta.
Ma io rimasi a riguardar lo stuolo,
e vidi cosa ch’io avrei paura,
114 sanza più prova, di contarla solo;
se non che coscïenza m’assicura,
la buona compagnia che l’uom francheggia
117 sotto l’asbergo del sentirsi pura.
Io vidi certo, e ancor par ch’io ’l veggia,
un busto sanza capo andar sì come
120 andavan li altri de la trista greggia;
e ’l capo tronco tenea per le chiome,
pesol con mano a guisa di lanterna:
123 e quel mirava noi e dicea: “Oh me!”.
Di sé facea a sé stesso lucerna,
ed eran due in uno e uno in due;
126 com’esser può, quei sa che sì governa.
Quando diritto al piè del ponte fue,
levò ’l braccio alto con tutta la testa
129 per appressarne le parole sue,
che fuoro: “Or vedi la pena molesta,
tu che, spirando, vai veggendo i morti:
132 vedi s’alcuna è grande come questa.
E perché tu di me novella porti,
sappi ch’i’ son Bertram dal Bornio, quelli
135 che diedi al re giovane i ma’ conforti.
Io feci il padre e ’l figlio in sé ribelli;
Achitofèl non fé più d’Absalone
138 e di Davìd coi malvagi punzelli.
Perch’io parti’ così giunte persone,
partito porto il mio cerebro, lasso!,
141 dal suo principio ch’è in questo troncone.
Così s’osserva in me lo contrapasso”.
Purgatorio Canto IV
(Il Poeta parla di San Leo)
Quando per dilettanze o ver per doglie,
che alcuna virtù nostra comprenda,
3 l’anima bene ad essa si raccoglie,
par ch’a nulla potenza più intenda;
e questo è contra quello error che crede
6 ch’un’anima sovr’altra in noi s’accenda.
E però, quando s’ode cosa o vede
che tegna forte a sé l’anima volta,
9 vassene ‘l tempo e l’uom non se n’avvede;
ch’altra potenza è quella che l’ascolta,
e altra è quella c’ ha l’anima intera:
12 questa è quasi legata e quella è sciolta.
Di ciò ebb’io esperïenza vera,
udendo quello spirto e ammirando;
15 ché ben cinquanta gradi salito era
lo sole, e io non m’era accorto, quando
venimmo ove quell’anime ad una
18 gridaro a noi: “Qui è vostro dimando”.
Maggiore aperta molte volte impruna
con una forcatella di sue spine
21 l’uom de la villa quando l’uva imbruna,
che non era la calla onde salìne
lo duca mio, e io appresso, soli,
24 come da noi la schiera si partìne.
Vassi in Sanleo e discendesi in Noli,
montasi su in Bismantova e ‘n Cacume
27 con esso i piè; ma qui convien ch’om voli;
dico con l’ale snelle e con le piume
del gran disio, di retro a quel condotto
30 che speranza mi dava e facea lume.
Noi salavam per entro ‘l sasso rotto,
e d’ogne lato ne stringea lo stremo,
33 e piedi e man volea il suol di sotto.
Poi che noi fummo in su l’orlo suppremo
de l’alta ripa, a la scoperta piaggia,
36 “Maestro mio”, diss’io, “che via faremo?”.
Ed elli a me: “Nessun tuo passo caggia;
pur su al monte dietro a me acquista,
39 fin che n’appaia alcuna scorta saggia”.
Lo sommo er’alto che vincea la vista,
e la costa superba più assai
42 che da mezzo quadrante a centro lista.
Io era lasso, quando cominciai:
“O dolce padre, volgiti, e rimira
45 com’io rimango sol, se non restai”.
“Figliuol mio”, disse, “infin quivi ti tira”,
additandomi un balzo poco in sùe
48 che da quel lato il poggio tutto gira.
Sì mi spronaron le parole sue,
ch’i’ mi sforzai carpando appresso lui,
51 tanto che ‘l cinghio sotto i piè mi fue.
A seder ci ponemmo ivi ambedui
vòlti a levante ond’eravam saliti,
54 che suole a riguardar giovare altrui.
Li occhi prima drizzai ai bassi liti;
poscia li alzai al sole, e ammirava
57 che da sinistra n’eravam feriti.
Ben s’avvide il poeta ch’ïo stava
stupido tutto al carro de la luce,
60 ove tra noi e Aquilone intrava.
Ond’elli a me: “Se Castore e Poluce
fossero in compagnia di quello specchio
63 che sù e giù del suo lume conduce,
tu vedresti il Zodïaco rubecchio
ancora a l’Orse più stretto rotare,
66 se non uscisse fuor del cammin vecchio.
Come ciò sia, se ‘l vuoi poter pensare,
dentro raccolto, imagina Sïòn
69 con questo monte in su la terra stare
sì, ch’amendue hanno un solo orizzòn
e diversi emisperi; onde la strada.
72 che mal non seppe carreggiar Fetòn,
vedrai come a costui convien che vada
da l’un, quando a colui da l’altro fianco,
75 se lo ‘ntelletto tuo ben chiaro bada”.
“Certo, maestro mio”, diss’io, “unquanco
non vid’io chiaro sì com’io discerno
78 là dove mio ingegno parea manco,
che ‘l mezzo cerchio del moto superno,
che si chiama Equatore in alcun’arte,
81 e che sempre riman tra ‘l sole e ‘l verno,
per la ragion che di’, quinci si parte
verso settentrïon, quanto li Ebrei
84 vedevan lui verso la calda parte.
Ma se a te piace, volontier saprei
quanto avemo ad andar; ché ‘l poggio sale
87 più che salir non posson li occhi miei”.
Ed elli a me: “Questa montagna è tale,
che sempre al cominciar di sotto è grave;
90 e quant’om più va sù, e men fa male.
Però, quand’ella ti parrà soave
tanto, che sù andar ti fia leggero
93 com’a seconda giù andar per nave,
allor sarai al fin d’esto sentiero;
quivi di riposar l’affanno aspetta.
96 Più non rispondo, e questo so per vero”.
E com’elli ebbe sua parola detta,
una voce di presso sonò: “Forse
99 che di sedere in pria avrai distretta!”.
Al suon di lei ciascun di noi si torse,
e vedemmo a mancina un gran petrone,
102 del qual né io né ei prima s’accorse.
Là ci traemmo; e ivi eran persone
che si stavano a l’ombra dietro al sasso
105 come l’uom per negghienza a star si pone.
E un di lor, che mi sembiava lasso,
sedeva e abbracciava le ginocchia,
108 tenendo ‘l viso giù tra esse basso.
“O dolce segnor mio”, diss’io, “adocchia
colui che mostra sé più negligente
111 che se pigrizia fosse sua serocchia”.
Allor si volse a noi e puose mente,
movendo ‘l viso pur su per la coscia,
114 e disse: “Or va tu sù, che se’ valente!”.
Conobbi allor chi era, e quella angoscia
che m’avacciava un poco ancor la lena,
117 non m’impedì l’andare a lui; e poscia
ch’a lui fu’ giunto, alzò la testa a pena,
dicendo: “Hai ben veduto come ‘l sole
120 da l’omero sinistro il carro mena?”.
Li atti suoi pigri e le corte parole
mosser le labbra mie un poco a riso;
123 poi cominciai: “Belacqua, a me non dole
di te omai; ma dimmi: perché assiso
quiritto se’ ? attendi tu iscorta,
126 o pur lo modo usato t’ ha’ ripriso?”.
Ed elli: “O frate, andar in sù che porta?
ché non mi lascerebbe ire a’ martìri
129 l’angel di Dio che siede in su la porta.
Prima convien che tanto il ciel m’aggiri
di fuor da essa, quanto fece in vita,
132 perch’io ‘ndugiai al fine i buon sospiri,
se orazïone in prima non m’aita
che surga sù di cuor che in grazia viva;
135 l’altra che val, che ‘n ciel non è udita?”.
E già il poeta innanzi mi saliva,
e dicea: “Vienne omai; vedi ch’è tocco
138 meridïan dal sole, e a la riva
cuopre la notte già col piè Morrocco”
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[…] che l’attestino. In età romantica la storia che Dante ha immortalato nella Divina Commedia nel V Canto dell’Inferno, divenne emblematica nell’indicare l’amore passionale e sventurato. I commentatori trecenteschi […]